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Chi sono i Neet? Ne parliamo con Chiara Bodini, Purpose&Talent Agent

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Chiara Bodini

Chi sono i Neet? Ne parliamo con Chiara Bodini, Purpose&Talent Agent

Intervista di Elisabetta Pina

Viviamo tempi in cui ciascuno di noi, qualsiasi lavoro stia facendo o non facendo, si chiede se si sente davvero soddisfatto. Sia dal punto di vista economico, sia da quello personale. E non è stata solo la pandemia a cambiarci. Sempre più persone stanno rimettendo in discussione il loro modo di vivere il lavoro.

Ma questo riguarda chi un percorso e una strada, in ogni caso, l’ha intrapresa. Un altro discorso è per i giovani che faticano a trovare un’occupazione, non posso quindi allontanarsi dalla famiglia d’origine, e cadono spesso in uno stato di apatia, sconfitta e rinuncia. Una fascia d’età, dai 14 ai 35, che oggi è definita Neet, ovvero Not in Education, Employment or Training, ragazzi che non studiano e non lavorano. Ne parliamo con Chiara Bodini, Purpose & Talent Agent. 

Chiara Bodini

Isolati, ma connessi. Foto Unsplash

Sono forse più soli rispetto alle generazioni precedenti secondo te? La tecnologia e la Rete li sta scollando dagli altri ma anche da se stessi forse?

Viviamo tempi estremamenti diversi rispetto al più recente passato, e i cambiamenti sono sempre più rapidi, grazie alla tecnologia e la sua capacità di mettere in contatto le persone più distanti e lontane, insieme all’aumento della popolazione. In uno scenario complesso dove anche la salute del nostro pianeta è in una fase critica, ci ritroviamo a dover prendere consapevolezza che le persone cambiano e le generazioni pure. Io non sono certa che prima fosse meglio. Credo che in questo campo fare dei paragoni sia inutile. Oggi i ragazzi hanno un modo di convivere e condividere la loro realtà tutto loro, ma le emozioni sono sempre le stesse. Dobbiamo imparare ad ascoltarli, capire cosa desiderano e indirizzarli.  Spesso la solitudine nasce proprio nel contesto familiare e scolastico. I social media arrivano dopo. 

In Italia è in espansione il fenomeno dei Neet, i ragazzi tra i 15 e i 34 anni che non fanno nulla, e sembra che si lascino vivere. Ma chi sono di preciso?

I NEET come dice l’acronimo sono i giovani: Not in Education, Employment or Training. Lo scarso investimento in innovazione che le istituzioni, insieme a scuole e università hanno svolto negli ultimi 40-50 anni insieme a una cultura opposta alla meritocrazia e alla diffusione di pessime ideologie politiche con pochissima visione sul futuro, hanno reso i giovani e aspiranti talenti inermi davanti alle nuove opportunità della vita.

L’Italia vince il triste primato di media più alta con 7 milioni di NEET, dove il divario economico e sociale del Sud purtroppo ancora una volta porta le conseguenza più tristi: quote molto alte per Sicilia (40,1%), Calabria (39,9%) e Campania (38,1%).  Le politiche pubbliche non bastano, neanche con tutta la buona volontà. Il cambiamento per essere a lungo termine dovrà dipendere da uno sforzo collettivo e profondo. Dobbiamo aiutare i giovani a capire che lavorare non è soltanto responsabilità ma è soprattutto emancipazione, il modo il quale noi “umani” troviamo un senso all’interno del contesto sociale. Dobbiamo passare il messaggio che la formazione e poi il lavoro sono fonte di crescita, ma anche di socialità e di autonomia.

Chiara Bodini

La vita scorre davanti a uno schermo, prima era la tv ora sono i social. Foto Unsplash

Cosa c’è che non va nel nostro Paese secondo te dal punto di vista del lavoro?

Come dicevo prima è un tema culturale ma anche di aver fatto male i conti, un pò come la ben più grave crisi demografica. L’Italia non riesce a vedere cosa potrebbe succedere il “giorno dopo”. Proprio non ce la fa. E così ci ritroviamo a dover organizzare i prossimi 5-10 anni con dei costi altissimi per la popolazione e per le imprese. Trovare personale qualificato per tutto il comparto dei servizi del sesto e settimo livello, è per il nostro Paese uno sforzo complicatissimo nell’immediato e spero che si stia lavorando affinché tra 20 anni la situazione migliori, altrimenti purtroppo saremo fuori dai giochi. Inoltre la formazione rispetto al passato oggi è continua data la natura e la portata dei cambiamenti e le contingenze esterne. Per cui lo sforzo è doppio: impostare una società che coglie formazione e lavoro come la faccia di un’unica medaglia.

Cosa si può aiutare i ragazzi a uscire dal loro guscio e ad avere una vita piena?

Stigmatizzare i Neet è più pericolosoe credo che molti di loro non si riconoscono in questa etichetta. I giovani nel nostro Paese, rischiano di perdersi ma si può fare molto per cercare di limitare questo grave rischio. Introdurre nelle scuole lo studio delle competenze trasversali, le cosìdette soft-skills o life-skills, quelle competenze che innate e poi stimolate con la consapevolezza ci permettono di muoverci nel mondo. Coltivare le passioni e le inclinazioni dei ragazzi: perché quello che piace appaga e di conseguenza si è più disposti a impegnarsi.

Introdurre poi dei sistemi formativi che uniscano le necessità di sviluppare competenze nuove come quelle informatiche e dei nuovi linguaggi insieme alle teorie motivazionali e psicologiche affinchè ci si cominci a vedere già da giovani come un insieme, come un talento. Picasso usava dire che lo scopo della vita era quello di trovare il proprio talento e che il significato della vita era poi quello di restituirlo al mondo. Ecco a me piace pensare che se ognuno di noi potesse portare, senza paure, le proprie passioni nella ricerca del proprio ruolo lavorativo la vita sarebbe più facile.

Come si fa a trovare il proprio talento? 

Il talento è un insieme di tratti unici della nostra persona e del nostro vissuto che fanno parte dell’identità. Si tratta quindi di un mosaico al quale con cura e consapevolezza dobbiamo saper guardare. Ogni cosa che abbiamo è preziosa se la riconosciamo nel modo giusto. Il talento è ancora oggi visto come quel qualcosa che hanno i pochi che eccellono in ciò che fanno. Nulla di più sbagliato, il talento è la risorsa più importante che ognuno di noi ha, bisogna imparare a riconoscerla. In primis da noi stessi e poi saremo in grado di mostrarlo agli altri. Questo è un punto che cambierebbe il mondo del lavoro a 360 gradi. 

Una ricerca dell’ADEPP_Associazione degli Enti Previdenziali Privati, riporta i lavori del 2030 tra cui: Scenografo dei ricordi (Nostalgist), l’Ottimizzatore di comunità (Localizer), Selezionatore di Robots (Robot Counsellor), Esperto di benessere aziendale (Company Culture Ambassador), Semplificatore (semplicity expert), Analista dei trasporti (auto-transport Analyst) per dirne alcuni. Tutti mestieri nuovi, che richiedono competenze specifiche e talenti particolari. 

Come esperta del settore quali credi che siano gli stimoli giusti per questi ragazzi?

Gli stimoli sono davvero personali, ma la motivazione ha sempre le stesse leve: una buona relazione con gli altri, essere autonomi e riconoscere il proprio operato in maniera positiva. Ovvero riuscire a riconoscere di saper fare bene qualcosa. Questi aspetti sono stati dimostrati anche dalla Neuroscienza oltre che dai lunghi studi condotti dalla Psicologia. Pertanto credo sempre di più che gli stimoli siano legati al capire individualmente come ci relazioniamo con gli altri, cosa ci piace e in che cosa siamo più bravi.  Riuscire a capire che la nostra passione può essere anche il nostro lavoro è un passaggio mentale che ancora oggi si fa fatica a fare. Rimanere con la mente aperta, disporsi all’ascolto e allo scambio con gli altri nel modo più sincero fa scattare leve inaspettate e trovare opportunità incredibili mai sognate. 

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